Domenico Cantore Musone
Delegato Scolastico di Marcianise
LATINA VERSIO EPISTOLE
U.Foscolo
§
QUAM IN HONESTIOREM CONDITIONEM
SEPULCRA VINDICATURUS
AD
Hippolitum Pyndemonte
DEDIT
*
CASERTA
Stab. Tip. Antonio Iaselli
–
1880
l’Autore
a Raffaele Musone professore nel Ginnasio di Caserta
Scrissi negli anni miei giovanili questa versione dei Sepolcri di Ugo Foscolo, e le teneva chiusa nel cassetto del mio tavolino. Insegnando belle lettere nel Seminario di Capua sotto i felici auspici del Cardinale Serra vero Mecenate degli ingegni, quando quel seminario fioriva e portava tanto nome, concepii il disegno di traslatare quel gran parto poetico in versi eroici latini. Interpretavo allora ai miei Allievi l’Eneide di Virgilio, e quella tromba sonora aveva accessa nell’anmo mio la scintilla delle muse romane. Ne sentivo le ispirazioni; e mi esercitai a comporre su quelle armonie. Il colto pubblico capuano accoglieva con piacere i miei componimenti latini, e m’incoraggiava ad osare nell’impresa per poter col tempo cogliere una fronda del’ambito alloro. Mentre tanto ardore m’infiammava a poetar latinamente, mi venner letti i versi sciolti del Cantore dei Sepolcri.
Mi risonò all’orecchio un’epica melodia, e mi vidi trasportato ad adattarvi la frase e il ritmo virgiliano. Ci lavorai di lena, e coll’animo armonizzato alle modulazioni del cigno mantovano condussi a termine il fatico lavoro. Lo feci udire a qualche amico, né mi rimasi di ritoccarlo con l’incessante lavoro di lima. Avevo fitto in mente la sentenza di Orazio: Nonumque prematur in annum – né per un novennio solo, ma per sempre lo avrei dimenticato nello scrittoio; senonchè avendomi tu detto che io già mi ritrovavo nel’età senile, e dei miei tanti anni spesi nel pubblico e privato insegnamento bisognava restar qualche vestigio, mi sono indotto a condiscenderne la pubblicazione. E nel pubblicare questa versione non voglio pretermettere taluni schiarimenti chi io ti faceva un dì per invogliarti a studiare e mandare a memoria i belli versi foscoliani. Perocchè mi ricordo che tu giovanetto e mio discepolo, dopo aver udito da me l’ordito meraviglioso di quell’Epistola, ti accingesti a studiarla, e la declamavi con tanta enfasi. Chi mai avrebbe detto allora che tu poi mi dovevi quasi strappare questo lavoro per mandarlo alle stampe!…
Quali osservazioni adunque io ti feci allora? So che in progresso di tempo hanno fatto profondi studi critici su questo carme, e specie il Muscongiuri e il Canello vi hanno stampati filologici comenti. Io non ripeterò cose riguardanti le bellezze estetiche, ma piutosto l’ingegnosa tessitura di questo monumento della letteratura nazionale.
I Sepolcri di Ugo Foscolo sono il compimento di quel che fece il Parini. Infatti il Parini nel suo Giorno a riforma dei sociali costumi prese a satireggiare le frivole leziosaggini della vita signorile; il Foscolo all’istesso scopo trattò la parte grave delle tombe: l’uno punse col riso dell’ironia, l’altro col tono disdegnoso.
Con ‘immagine del sepolcro ci si risvegliano tutte le idee più care che possano essere nella famiglia, tutte le più dolci affezioni domestiche: ond’è che il sepolcro sorge in sulle prime istituzioni di famiglia. Ma Foscolo non lo prende in questo significato. Nel suo poemetto spicca tanto di gravità e sostenutezza che si dimentica questa parte di caro e di dolce che il sepolcro eccita negli animi nostri. L’idea del Foscolo è tutto sociale; e l’uomo vien considerato come membro della società, non già come padre o come sposo od altro. L’influenza che il sepolcro esercita sul rinnovamento morale della società, è appunto l’alto obbiettivo del poeta.
Egli sviluppa il suo soggetto incominciando dalla parte storica, e fin dal principio si vede come ponga in campo la società. Perocchè dice che i sepolcri furono, dacchè vissero uomini al mondo; e ne mostra così l’origine antichissima.
Il suo fine è di abbattere l’istituzione dei Cimiteri e farvi sostituire quella dei Camposanti: ecco perché arreca molte tradizioni contrarie ai primi e favorevoli ai secondi. Parla del tempo degli antichi Romani, da Roma poscia salta in Inghilterra, di cui dice come in mezzo ad infiorati e deliziosi boschetti sorgono le tombe dei morti: e mettendo di riscontro l’uso di Roma e d’Inghilterra, combatte l’istituzione dei cimiteri.
Dopo la parte storica il poeta passa a vedere le sensazioni che le tombe producono sui vivi. Ma come ha saputo rendere poetica questa tesi filosofica ed astratta? Lo fa sostituendo in un tratto la parte immaginosa a un freddo ragionamento: perocchè mette se stesso in mezzo alle tombe che osserva e nota. Immagina di trovarsi nel Tempio di Santa Croce in Firenze, vede le arche sepolcrali dei più grandi Italiani, e rivelando il potere che quelle ebbero su di Lui e su Alfieri argomenta all’impressione che fanno sul’animo umano. Ma l’impressione sentita da lui in vedendo le tombe di Machiavelli, di Buonarroti, di Galilei è il punto più saliente: onde voltosi a Firenze la chiama beata, non perché la rallegrino amene valli, non perché diede d’idioma al Cantor di Valchiusa, non per altre cose, ma perché ha un Tempio, dove sono raccolte tutte le glorie italiana. Ecco quale efficacia esercitano le tombe di Santa Croce sull’animo del Foscolo .
Il quadro che segue, è pure molto poetico: è l’Alfieri che malinconio e taciturno considerando la tomba di Dante vi attinge magnanime ispirazioni.
Attratto il Foscolo dell’entusiasmo che lo domina, trasvola con la fantasia ai tempi più remoti, corre ai campi di Maratona e canta le potenti efficace che quelle tombe ebbero a rinfocolare il genio marziale degli Elleni. Trapassa poi col pensiero all’Ellesponto e considera la tomba di Aiace: da ultimo si spinge al tempo dell’assedio di Troia e si ritrova con Omero. Qui il poeta caldo d’ispirazione va a terminare con la profezia ch’è la parte più culminante dell’entusiasmo: onde non più cura le impressioni dei sepolcri, ma immagina Cassandra che sconsolata per le ruine di Troia si rianima prevedendo che ne resteranno le tombe.
Alla parte narrativa adunque segue la descrittiva e a questa la drammatica. Vi ha un luogo che non deve perdersi di vista, ed è dove parlando del Parini dice che non gli diedero sepoltura. Prende il destro opportuno per considerare, quanto sia malfatto il porre in dimenticanza gli uomini grandi senza nemmeno il ricordo d’una lapida mortuaria.
Questi brevi schiarimenti forse basteranno in parte per avviare un giovanetto allo studio dei Sepolcri; il resto lo potrà fare da sé aiutandosi col corredo d’una classica erudizione, con la viva voce del maestro e con i sullodati commentatori. Io delle fatiche durate in questa mia Versione riceverò largo compenso, se come fedele interprete avrò contribuito a mantener accesa la fiamma di quei versi stupendi, che tanta ammirazione destarono perfino all’istesso Monti. I cultori del latino raffronteranno i due testi, e il loro studio comparativo conferirà a stamparne nell’animo i concetti patri, nobilissimi e rigeneratori. Né il Foscolo con la favella del Marone parrà una figura meno ammiranda; perché egli era una tempra italiana col forte carattere latino, era il gran continuatore delle antiche tradizioni. I suoi Sepolcri modulati sul metro virgiliano potranno risonare come cara voce in mezzo al silenzio delle Pimplee da lui vagheggiate.
Ed ora addio, mio carissimo ed ultimo fratello.
Ti rendo grazie delle cure usate per le mie povere cose; tu che le hai volute a luce, procura loro benanco quell’amica accettazione che da sé non potranno conciliarsi. Serba affetto al tuo Domenico che in qualità di primogenito non risparmiò zelo per educarti a un magistero da lui prima esercitato, e che tu, come per eredità, vai continuando con felici successi.
Marcianise li 20 luglio 1880.
Latina versio Epistolae
Ugo Foscolo
An sub cupressis tandem placide ossa quiescant
Functorum, inque urnis lacrymosis? Sol ubi luce
Fecundare mihi cesset mirabile visu
Vivorum, herbarumque genus; choreasque futurae
Lascivas horae dulces me ducere coram
Absistent; nostras aures nec, amice, tenebis
Intentar recitans tristi modulamine carmen;
Nec me Pieridum, nec spiritus in tus amoris,
Quae nostro exilio solatia in orbe supersunt,
Accendet, quonam reparentur lapia sepulcro
Tempora, ubi cineres nostros dignoscere detur
Ossibus innumeris sparsis terraque, marique?
Verum, Pindemonte , fugit vel diva suprema,
Spes tumulos, Letheque suis involvit in undis
Omnia, motuque aeterno vis magna fatigat,
Atque homines, tumuli, rerumque extrema figura,
Nec non relliquiae coeli, terraque novabunt
Formas.
At suprema dies portenta priusquam
Haec ferat, errorem sebi cur mortalis amicum
Invideat, functos remorantem in limine Ditis?
Nonne etiam vivit, tumulo post fata locatus,
Cum tenebrae eripiant almae spectacula lucis,
Si vitam producat adhuc in corde suorum
Per dulces curas? Coeleste hoc foedus amoris,
Coelestis virtus hominum, qua soepius inter
Defunctos, vivosque manent consortia vitae,
Si pia, quae teneris suscepit terra sub annis,
Et nutrimenta dedit, materno denique asylum
In gremio reserans, tutas ex turbine saevo
Relliquias faciat, vulgi pedibusque profanis,
Nomen et adservet lapis, arbor amicaque odorem
Floribus effundens molli cineres levet umbra.
Haeredes tantum sibi qui non quaerit amoris
Haud tumulo gaudet, suus et post funera vivens
Quae luctu resonant acherusia templa pererrat
Spiritus, aut clemens Deus illum protegit alis
Sub magnis, habet urticis sed consita tellus
Nulli cinta suos cineres, ubi pectore nulla
Vota effundit amans mulier, gemitusque nec ullos
Audit, quos tumulo emittit natura, viator.
Subtrahit ex oculis nunc lex periniqua sepulcra,
Defuntosque jubet nullo discrimine haberi;
Et jacet ipse tuus tumuli sine honore sacerdos;
Musa Thalia, tibi modulans qui carmina, laurum
Nutriit ingenti cura sub paupere tecto,
Pictosque appendit flores, at munere contra
Non ingrata tuo fluxerunt carmina vatis,
Quae Longobardum mordebant Sardanapalum
Cui tantum mugire boves est dulce, per agros
Errantes, montosa suis quos alluit undis
Abdua Ticinusque, ac otia grata ferentes,
Atque dapes. Ubinam, dulcis Pimplaea, moraris?
Ilas inter frondes, ubi jam suspiria fundo
In patriam, ambrosiae, quo sistis numina praesens
Haud mihi spirat odor. Gressus huc ferre solebas
Subridens vati patulae tiliae arbore subter,
Quae moestos fremitus nunc edit frondibus, urnam
Quod non ,Diva, senis celat, cui pectoris umbra
Lenibat curas. Tumulos scrutaris an inter
Plebejos errans, ubi sint sacra ossa Parini?
Illi non umbras urbs, quae lasciva canentes
Semiviros auro invitat, lapidemque nec ullum,
Nec posuit defuncto inter sua moenia carmen,
Forsan et ipsius corpus cervice reseda
Commaculat latro, merita qui morte nefanda
Persolvit poenas. Inter dumeta, rudesque
Macerias canis auditur perle scalpere terram,
Sola super tumulos errans, ululansque per arva
Impellente fame, cranioque erumpere upupa,
Cauta ubi vitabat lunam, super atque volare
Dispositas per rura cruces funesta, querique
Infausto lucem singultu obscoena volucris,
In tumulos, quorum cepere oblivia vivos,
Manantem ex astris. Nequicquam, Diva, precaris
Ut super ex coelo labatur nocte poetam
Ros squallente tuum. Heu! nec flores germinat ullos
Terra sepulcralis, ni humanis laudibus, atque
Dignetur lacrymis effusis lumine amico.
Iam tum cum cultus superorum, et jura, thorusque
Fecere, ut propriis humana animalia rebus
Prospicerent, rebusque aliorum, ex agire nudo,
Servabantque feris humana cadaveri vivi,
Queis alia efformat vegetantia torpori, rerum
Natura aeternis vicibus; testantia fastos
Surgebant monumenta, ispisque nepotibus arae;
Hincque lares responsa dabant sanctumque parentum
Ossa super quicquid jurarent; pluribus annis
Relligio haec virtute patrum permansit in orbe,
Et pietate simul, diverso tradita ritu.
Templorum non semper erant pavimenta sepulcra,
Nec foetor gravis, exhalant quem putre cadaver,
Thuribus incensis permixtus polluit aede
In sacra orantes, nec tristes mortis imago
Urbes picta dedit passim. Perterrita mater
Exilit evigilans, et brachia nuda repandit
Lactentis capiti, ne abs rerum haerede suarum
Defuncti in somnis suffragia sacra petentis
Excutiant puerum suspiria longa sopore.
At cedrus effundens circum, et cupressus odorem
Usque virescenti tendebant brachia fronde,
Inclinata super tumulos, lacrymaeque fluebant
Divitibus vasis collectae ex ore precantum;
Ut nox diffugeret coeco penetrale supulcri,
Ex radiis solis rapiebant fomite flammam
Namque hominum inquirunt morientia lumina solem
Superamque die suspirant pectora cuncta
Deficiens lumen; violas circum , acque amaranthos
Nutribant tumulos lustralia flumina; quique
Lac libans animi tristes narrabant amatis
Extinctis curas, circum accipiebant odorem,
Spargít in Elysiis qualem levis aura beatis
Insanire pium, quo sunt tam grata britannis
Virginibus circa tumulos loca amoena sub urbem,
Quo matris jactura pias compellit, ubi almos
Suppliciter Genios orarunt, alter ut heros
Redderet heroem, qui vieta ex nave revulso
Composuit feretrum malo, at cum fortia gesta
Non resonent, civesque metus dominetur, et aurum
Dives, necquiquam stant magnis sumptibus, atque
Augurio tristi monumenta ex marmore surgunt,
Et cippi. Iam docti, et dítes, et generosi,
Italiae decus, et mens, tecto regale sepulti
Sunt vivi, quo turba hominum concurrit adulans,
Et decus unum illis sunt stemmata. Mors mihi sedem
Iam paret optatam, cum tandem absistat iniqua
Sors, nullasque reportet opes, sed corde calentes
Affectus haeres referat, carmenque sepulcro
Insculptum.
Torpore animos exsuscitat urna
Insignis virtute viri, quaeque excipit illam
Terra peregrinis est, Pìndemonte, beata,
Ac sancta. Ut primum vidi monumenta, quiescit
Corpus ubi, sceptrum moderans qui regibus, illo
Decerpit lauros, lacrymisque, et sanguine quanto
Diffluat, edocuit gentes; atque illius arcam,
Qui Romae superis alium patefecit Olympum;
Quique orbes plures errare sub aetheris axe
Vidit, et immotum illos círcumfundere solem
Lumine, quo signavit iter coeleste Britanno,
Qui nova lustravit vestigia fortibus alis,
Te fortunatam, tali sum voce loquutus,
Cui coelum adritet viventibus usque salubre,
Cuique suo latices puros ex culmine fundit
Mons apenninus ! Candenti lumine luna
Coelo laeta tuo foecundos palmite colles
Convestit, circum et variorum thura repandunt
Florum convalles oleis, villisque frequentes;
Teque, auresque tuas carmen, Florentia, primo,
Corde quod errantís Ghibellini expulit iram,
Auditu tenuit suspensas; tuque parentes
Ori Calliopis mellito, et verba dedisti,
Hellade qui nudum, nudum simul urbe Quirini
Candidiore tegens tunica tradebat amorem
In gremio Veneri coelesti; ast ipsa beata
Et magis, atque magis, tempio nam lumina servas
Italiae collecta sacro, quaeque unica forsan,
Ex quo barbaries naturae lege negatas
Transiliens alpes, nec non sors omnia versans
Invadebat opes, patriam, atque altaria, et arma,
Et quicquid praeter memores fastosa nam ubi natis
Ad magna ingeniis subridens Gloria nomen
Evehit Italiae, hinc faustum captabimus omen.
Et genio stimulum admovit Victorius ista
Saxa adiens; laribus patriis iratus, ubi Ami
Ex oculis hominum florens mage ripa recedit,
Tristibus errabat curis submersus, et arva
Quaque oculis cupidis spectans, ac aethera apertum
Cumque suas curas haud ulla objecta levarent,
Hic tandem austerus vates vestigia pressit,
Mortis in ore suo pallorem, spemque reportans.
Aeternum jacet una istis cum heroibus, atque
Pro patria ossa fremunt. Tanto sub munere pacis
Alloquitur Deus; et Marathonae, ubi Graecia bello
Fortibus insigni posuit monumenta peremptis,
In persas grajam virtutem accendit, et iram.
Euboicos fluctus percurrens navita velis
Per tenebras noctis galeas splendescere late
Spectabat procul, et resonantes ictibus enses;
In sublime pyras igniti attollere globos
Fumi, Spectabat cinctas fulgentibus armis
Quoerentes avide pugnam discurrere larvas;
Et campis, sileat cum nox horrenda, tumultus
Turmarum longe auditus, clangorque tubarum,
Atque premens galeas morientum cursus equorum,
Et gemitus, hymnique, trium cantusque sororum.
Te fortunatum, viridi qui flore juventoe,
Hippolyte, errabas jactata per aequora ventis!
Cornua sique antennae vertit trans mare nauta
Aegoeum, antiquis resonare Propontidis oras
Audisti historiis, fluctum et mugire ferentem
Aeacidis scutum rhoetea ad saxa sepulcrum
Insuper Ajacis; meritos mors librat honores
Fortibus; Aeolidi nec mens astuta, neque omnis
Gatia regnantum dedit, ut spolia ampia referret;
Numinibusque stygis commotis fluctibus, errans
Immeritis fuit exuviis spoliata carina.
Ast ego, quem turbae rerum, laudisque cupido
Per gentes agitant, utinam ispirante Camoena
Humanam mentem, heroas defendere letho
Provocer. Ad tumulos custos Pimplae a moratur,
Cumque alis lente labentibus hora ruinas
Illorum everrit, dulci deserta locorum
Laetificat cantu, superante silentia mille
Saecula. Nunc focus est deserta Troadis ora,
Qui peregrinorum concursu fulget in aevum
Pro meritis nymphae, per divinos hymenoeos
Quae conjuncta Iovi; thalamoque est Dardanus illo
Editus, unde fuit Troj a, Assaracusque, nurusque
Quinquaginta, et gens Iuli de nomine dicta,
Sceptra regens orbis romani; namque ubi Clothon
Elysii ad choreas aura ex vitale vocantem
Electra audivit, suprema haec pectore fudit
Vota Iovi; oh! si, ajebat, tibi cara fuerunt
Et decor, et crines, et noctis pervigil hora,
Nec majora mihi largitur praemia fatum,
Defunctam saltem de coelo respice amicam,
Electrae ut maneat fama haud peritura per aevum
Sic decedebat, largos et Olympius ipse
Dissolvens gemitus caput immortale movebat,
Ambrosiam in nympham spargens, corpusque sacravit
Et tumulum illius. Compostum ibi pace quiescit
Corpus Ericthonii, nec non Ili ossa parentis;
Iliades ibi demissis per colla capillis
Amovere viris frusta impendentia fata
Supplicibus votis; Cassandra huc, pectus anhelum
Cum praesens ageret Numen praedicere casus
Extremos Trojae, venit miserata, piumque
Intonuit Laribus carmen, dulcesque nepotes
Praemonuit fatumque docens commune juventam
Flebat, ducens ex imo haec suspiria corde:
Oh! si Argis, ubi Tididi, Uierteque nato
Per campos pascetis equos, dent fata redire,
Frustra quaeretis patriam! prostrata ruinis
Moenia fumabunt, quorum fuit auctor Apollo.
Verum haec non linquent patrii monumenta penates
Quod servare malis nomen, sollemne Deorum
Est munus. Vos palmae, feralesque cupressus,
Turba nurum Priami quas conserit, atque rigatae
Ex viduis lacrimis subito assurgetis in altum,
Patres o servate meos sub tegmine, quique
Abstineat pius ex ramis ad funera sacris
Vix consanguineos lugebit morte peremptos,
Contingetque aram castus. Servate parentes;
Tempus erit, longe antiquis cum errabit in umbris
Mendicans coecus vestris, aditusqeu sepulcri
Pertentans manibus penetrale subibit, et urnas
Complexus responsa rogabit. Caeca dolebunt
Antra, et subversum bis tunc monumenta loquentur
Ilion,et totidem muta regione refectum
Ut genus auferret Pelei fatale tropaeum
Splendidius. Vates divinus Carmine mulcens
Moerentes umbras, quotquot complectitur ingens
Oceanus pater, argivos per saecula reges
Extollet terris. Lacrymarum tu, Hector, habebis
Munus, ubi sanguis patrio profusus amore
Sit sacer, et luctu dignatus, donec et almus
Sol hominum innumeros lustrabit lampade casus.
Fine
Testo trascritto dall’originale, in occasione della I^ Edizione del Certamen Senecanum intitolato a “Domenico Musone”, organizzato dal Liceo Scietifico e Classico “Federico Quercia” di Marcianise.
Cfr. L’opera ” I Sepolcri”, pubblicata da Domenico Musone, è citata a pag.1944 nel Catalogo dei Libri Italiani dell’Ottocento (1801-1900) – Settore Autori (CLIO) Editrice Bibliografica, Milano.
Cf. Collana Risvegli Culturali, VOl. I, “Il Contributo dei cattolici alla storia letteraria e umanistica nell’800 in Terra di Lavoro: L’Umanista Domenico Musone, 1994
a cura della Collana Editoriale Risvegli Culturali (D.M.) 10 maggio 2012