In via preliminare devo ricordare che l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha il merito di aver richiamato alla memoria collettiva le vicende della Repubblica Partenopea del 1799, dei suoi protagonisti, continuando la sua azione di contribuire alla crescita della cultura nel nostro paese.
Eleonora Pimentel è certamente una protagonista di questa vicenda, che, se pure breve nel tempo, ha gettato le basi per una riflessione più ampia e per un’azione più largamente consapevole, funzionale alla unità della nostra Italia.
Di Eleonora si ricorda l’impegno politico e culturale, profuso nei mesi della Repubblica, fino alla morte, comune del resto a tanti intellettuali, che costituivano il prestigio in Europa della cultura napoletana. Non so se Napoli si sia ancora rimessa da allora.
Di Eleonora si ricorda meno la produzione letteraria, la sua attività di poetessa e non viene di solito inserita in testi antologici, tanto meno letta nelle scuole. Su di lei pesa il giudizio di Croce, che pure l’ha presentata al mondo per le sue capacità di intellettuale politicamente impegnata, riservandosi per la produzione poetica una valutazione di poetessa minore di stampo metastasiano. Eleonora muove i primi passi nell’ambito dell’Arcadia, in seguito metterà la sua poesia a disposizione dell’impegno culturale e politico della rivoluzione cosiddetta giacobina, anzi la rende funzionale alla crescita del popolo e della cultura della libertà e dell’eguaglianza. Il suo cammino letterario ha trovato punti di confluenza non solo con Metastasio, ma anche con Voltaire e con molti altri intellettuali del suo tempo. Il suo impegno non ha riguardato solo la poesia, ma anche discipline diverse del campo scientifico ed economico.
C’è chi si è interessato ad inserire la Pimentel nella storia letteraria, rispondendo ad una esigenza, quella di superare il dato dell’assenza, cioè il fatto che le scritture di donna, pur numerose nella storia della cultura italiana, sono rimaste e rimangono esterne alla tradizione della nostra letteratura. La Pimentel è ricordata come giornalista politica; si è ipotizzato che abbia potuto influire sulla personalità di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, che 50 anni dopo farà confluire nel giornalismo i suoi interessi politici, però è interessante il tentativo di rivedere il canone della letteratura italiana a partire dall’esistenza di una produzione letteraria femminile.
Eleonora nasce nel 1752 a Roma. Qui vive i suoi primi otto anni. La famiglia apparteneva alla nobiltà portoghese. La famiglia della madre Caterina, i Lopez de Leon, era originaria di Lisbona ed i suoi avi già risiedevano a Roma come avvocati presso la Curia. Caterina Lopez aveva ottenuto dal re del Portogallo la reversibilità di una pensione,ottenuta dal padre dal re Giovanni V; era pertanto un buon partito. Il nobile don Clemente de Fonseca Pimentel si trasferì a Roma per sposarla in un matrimonio combinato, così come si usava. Essi abitavano a Roma, in via Ripetta, dove oggi resta una lapide. L’abate, Antonio Lopez, fratello della madre, persona colta, fu il primo maestro di Eleonora. Con lui imparava a conoscere Roma, studiava il latino ed il greco ed anche la matematica e la storia naturale, su sollecitazione del padre. Il clima culturale romano era più erudito che vivace, eppure con Cristina di Svezia nei giardini romani era nata l’Arcadia, che raccoglieva i letterati, gli spiriti liberi, in genere provenienti da famiglie patrizie. Eleonora con lo zio visitò l’Accademia dell’Arcadia e frequentò salotti letterari, come quello di Maria Pizzelli, pertanto prese confidenza con la poesia e la frase classica.
Nel 1760 il ministro portoghese Pombal cacciò i Gesuiti dal Portogallo, i rapporti con i portoghesi a Roma divennero difficili e l’ambasciatore de Mendoza emanò tre editti, con i quali i sudditi residenti nello stato della Chiesa dovevano allontanarsi. Così i de Fonseca si trasferirono a Napoli. Roma in quegli anni non arrivava a 150000 anime, Napoli ne contava più di 350000. Era una delle grandi capitali europee, seconda a Parigi, forse prima di Vienna.
Il Regno di Napoli era diventato indipendente nel 1734, dopo duecento anni di dominio spagnolo ed austriaco e dopo che vi si era stabilito il re Carlo, cui Filippo V di spagna aveva ceduto ogni diritto. I primi 60 anni del Settecento erano stati favorevoli, sia per l’aumento della popolazione, sia per buone annate agricole, che non avevano messo in moto alcun processo di rinnovamento. Carlo III con il ministro Tanucci aveva arricchito Napoli con nuove costruzioni ( il teatro San Carlo, il San Ferdinando,la Reggia di Caserta, l’Albergo dei poveri; nel 1748 vengono scoperte Pompei ed Ercolano e si avviano i primi studi). Carlo regna 25 anni, fino al 1759. Abdica in favore di Ferdinando IV, terzogenito ( il primo figlio era demente, il secondo Carlo Antonio erede al trono di Spagna) , di nove anni. Quindi il governo fu affidato ad un reggente, il Tanucci, che tentò di proseguire sulla strada delle riforme, ma gli ostacoli non erano pochi. Tra il 1759 ed il 1764 infuriò a Napoli una terribile carestia, seguita da un’epidemia. Pasquale Villani annota come questa crisi fece emergere forti squilibri: provocò aumenti dei prezzi, scatenò fenomeni speculativi ed inflazionistici, favorendo i detentori della rendita fondiaria e del capitale mercantile, aggravando le condizioni della popolazione contadina. Le campagne furono spogliate per dare rifornimenti alla capitale e folle di contadini, rimasti senza niente, affollarono Napoli, aumentando il numero dei disoccupati ovvero dei lazzari, che davano prova di attaccamento al re ed alla sua corte, poiché dipendevano per il quotidiano dalle loro regalie ( su queste persone si registrano i giudizi negativi di Diderot, De Brosses, Montesquieu, il marchese De Sade; diverse le opinioni di Stendhal e di Goethe). In altri paesi, più avanzati, si progrediva nel superare vecchie strutture economiche, si avviava la rivoluzione commerciale ed in Inghilterra si preparava il decollo verso l’industrializzazione. Il mercato napoletano rimaneva subalterno. Nel 1767 il Tanucci sciolse la Compagnia di Gesù e mise a disposizione terre e beni, di cui solo una parte fu attribuita ai contadini.
Eleonora arriva a Napoli proprio in questi anni e l’impressione dovette essere profonda. Alcuni anni dopo se ne ritrova una traccia nell’Epigramma e nell’Elegia, composte da una 19enne Eleonora per il portoghese padre Vittorio de Santa Maria. L’idea di trasferirsi a Napoli fu dello zio, l’abate Antonio, che aveva un amico nel console portoghese Sà Pereira.
Napoli era una città, in cui le donne sapienti trovavano accoglienza. Ne ricordiamo qualcuna: Eleonora Barbapiccola, filosofa, che traduce i Principi della filosofia di Descartes ( nell’introduzione sosteneva il diritto delle donne allo studio della filosofia), Faustina Pignatelli,principessa di Colubrano (iscritta per i meriti scientifici nei registri delle scienze di Bologna), matematica e fisica, le scienziate Aurora Sanseverino,duchessa di Laurenzano, e Mariangela Ardinghelli, che studiò la forza dell’elettricità in fisica e tradusse le opere di Stephen Hales sulla pressione sanguigna e sulla fisiologia vegetale, la sociologa ante litteram Matilde Parrino, che condusse un’inchiesta tra i contadini pugliesi. Nonostante tanti meriti le donne non avevano uno statuto intellettuale, erano escluse dall’università, non erano né medici né avvocati e la stampa dei libri avveniva a loro spese. Maria Carolina, giunta a Napoli nel 1768, pare avesse simpatie massoniche e volle l’abate Antonio Jerocades capo della colonia napoletana dell’Arcadia, il quale tra l’altro produsse dei canti, in cui spronava la virtù rinnovatrice di Tanucci. Il Settecento riformatore fondava sulla fede nella scienza delle donne, in Francia come a Napoli. Le donne avevano rotto il tabù della conquista della scienza astratta, superando una tradizionale misoginia del sapere. Anche la politica si fa scienza ed Eleonora con il suo Monitore guida un’azione, che da cerebrale diventa concreta. I Borbone si accaniscono contro di lei,anche perché era il più temibile intellettuale, per giunta donna.
Eleonora a Napoli incontrò alcune delle donne sapienti del panorama culturale napoletano e riprese gli studi non solo con lo zio, ma grazie al console Sà Pereira studiò il portoghese, il francese, l’italiano e l’inglese, botanica e filosofia, matematica ed astronomia, chimica,mineralogia con menti eminenti del tempo. Conobbe Domenico e Giuseppe Cirillo, Gaetano Filangieri, da cui apprese la filosofia e la teoria del governo democratico dello stato secondo ragione. Recitò i suoi primi versi nel salotto di don Francesco Vargas Macciucca, entrò nell’Accademia del Filaleti, con il nome di Epolnifenora Olcesamante ( che è l’anagramma del suo nome e cognome ). Entrò poi nell’Arcadia di Napoli con il nome di Altidora Esperetusa ( in nome delle sue due terre: Esperia e Lusitania ). Frequentò l’abate Galiani, con il quale potè assistere a concerti e spettacoli teatrali. Il settecento francese è il secolo degli abati, l’abate de Gondi, l’abate Prevost, l’abate de Bernis. Galiani è il più noto degli abati italiani a Parigi, dove era stato mandato da Tanucci come segretario d’ambasciata, e da cui fu richiamato nel giugno del 1769.
In occasione delle nozze di Ferdinando e Carolina, Eleonora, la portoghesina,sedici anni, compose un epitalamio il Tempio della gloria, 79 ottave di genere encomiastico, che le permisero di essere gradita alla regina. Qui c’è erudizione, attraverso la quale si costruisce il rapporto con la storia. L’evento delle nozze appare costruito da forze umane e divine, storiche e mitologiche, in una volontà di reinvenzione del mondo, al punto che la conclusione diventa un pretesto per una rappresentazione cosmogonica, dai primordi al presente.
Prevale un’istanza di controllo sul potere dei sensi. Singolare l’immagine dell’isoletta, su cui regna Venere, ma il cui centro sfugge alla dea ed è il tempio della virtù. Il poemetto si regge sull’antitesi: amore sensuale/ virtù. Al vizio si oppone Minerva guerriera. Tema poco originale. Nelle descrizioni prevale l’ordine, la simmetria, una certa ricerca della semplicità pur in un contesto maestoso. C’è l’elemento erudito, attraverso il quale la storia procede verso l’affermazione delle casate dei Borbone e degli Asburgo, nelle persone di Ferdinando e Carolina. Il sonetto è un genere che Eleonora frequenterà spesso. Vi sono i sonetti dagli stilemi classicisti, ma anche sonetti dal tono più sofferto, come quelli per la morte del figlio.
Un sonetto in occasione delle nozze di Gherardo Carafa con Maddalena Serra di Cassano fu inviato a Metastasio, che rispose con una lettera.
Nel 1771 muore la madre, che aveva provveduto a riconoscerle quasi tutta l’eredità, rendendola così un buon partito. Fu fidanzata dalla famiglia con il cugino Michele, che non le mostrò, intimidito forse dal “genio”di famiglia, l’atteso interesse e partì per Malta dopo tre anni di fidanzamento e non rispose alle sue lettere. C’è un sonetto simpatico al riguardo, nel quale emerge una certa verve polemica.
Un tono più sentenzioso nel sonetto per la nascita della seconda figlia di Carolina. La delusione della regina per la mancata nascita di un figlio maschio viene consolata grazie ad un richiamo alla volontà del fato.
Nel 1775 scrive una cantata per la nascita di Carlo, ereditario delle due Sicilie. Per questo componimento ricevette i complimenti di Metastasio, che stava a Vienna.
La cantata è un genere, che si sviluppa nei Sei-Settecento. Le cantate della Pimentel si caratterizzano per il numero elevato dei personaggi, per la presenza di uno o più cori, sono dei melodrammi in miniatura. Qui si sente la lezione del Metastasio. Nella Nascita di Orfeo si annunzia un’età felice, fatta di civile convivenza e di rispetto reciproco.
Così ottenne il posto di bibliotecaria di Carolina e da questo posto prestigioso entrò in contatto con i maggiori filosofi dell’illuminismo, certamente con Voltaire, che le dedicò un sonetto. Intanto a corte la nascita di un figlio maschio permetteva a Carolina di partecipare alle sedute del Consiglio di Stato. Tanucci viene licenziato e nello stesso anno, su suggerimento di questi, fu abolita la Chinea, una tassa pagata al Papa in segno di vassallaggio. Questa decisione fu molto apprezzata dagli intellettuali illuministi.Eleonora esalta la figura di Ferdinando IV in un sonetto in vernacolo.
Così come fu apprezzata la decisione di continuare a finanziare la manifattura di S.Leucio, una specie di falansterio, un esperimento proto socialista, che era valso le lodi degli intellettuali dell’epoca e della stessa Eleonora. Due sonetti in onore di Ferdinando.
Nel 1777 compose il Trionfo della Virtù(dramma musicale), in occasione di un attentato, per il primo ministro portoghese, il liberale Pombal, che con il re Giuseppe I era stato un riformatore per eccellenza. Pombal aumentò la produzione interna rispetto alla concorrenza straniera, sviluppò il commercio coloniale e stimolò lo sviluppo delle fabbriche. Fondò una compagnia per la produzione del vino ed una per la pesca. Adottò una politica protezionistica, che permise la nascita di centinaia di piccole industrie; fondò la banca reale e una struttura per amministrare la raccolta delle imposte. In campo religioso ridusse il potere della chiesa, subordinò al potere del re quello della Santa Inquisizione. Riformò il sistema educativo, togliendolo alla Chiesa e portandolo sotto il controllo dello Stato. Eleonora rimase sedotta dal programma riformatore di Pombal, che le dava l’idea di un definitivo trionfo della virtù politica. Il Portogallo si era assunto il compito di vegliare alla grandezza d’Europa, mentre questa si dilaniava nelle sue divisioni, gettandosi alla scoperta e conquista di nuovi continenti, concedendo ai coloni d’America nuovi onori, in nome dell’eguaglianza dei popoli. In apertura la F. si soffermava sulla natura etica del rapporto tra il sovrano “distributore della giustizia e provvidenza eterna” e il ministro riformatore che non è “solamente immagine del Re, ma insieme l’immagine de’ popoli, per cui e i bisogni e le preghiere di questi si sollevano al trono …”; da tale fondamento scaturivano “la dignità del potere regio e la fermezza della pubblica felicità” (Il Monitore…, ed. 1943, pp. 201 s.).Nel Trionfo le ninfe del Tago cantano i successi della politica economica del Pombal, le scienze cantano la riforma dell’università di Coimbra e l’America e l’Africa celebrano il trionfo contro la schiavitù. Un componimento poetico certamente non arcadico, dove la materia è politica e il titolo un poco petrarchesco.
Nel 1778 sposò il tenente Pasquale Tria de Solis. E. aveva 25 anni ed il marito 44. Fu un matrimonio sfortunato. Due opposte culture: i Fonseca erano amanti della cultura, dei libri, delle lingue straniere, dei viaggi, poco ligi al papato; diversamente i Tria erano conservatori, papalini, ostili alla cultura. La convivenza con la gelosia di Pasquale e le sue quattro sorelle fu terribile. Un figlio, Francesco, morì ad otto mesi e ci furono dopo due aborti, provocati forse dai maltrattamenti. Per queste morti Eleonora compose dei sonetti. Fu avviato un processo di separazione, che si chiuse nel 1785 dopo 6 anni di matrimonio. Nel frattempo Pasquale aveva dilapidato il suo patrimonio e quello di Eleonora, che fu costretta a chiedere un sussidio al re per il suo stato di indigenza.
Cinque sonetti scrive per la morte del figlio, un’ode per essere stata curata dopo un aborto. La cornice dei sonetti è tipicamente petrarchista. L’ode è singolare sia per la tematica sia per il linguaggio. E. trova immagini neoclassiche per descrivere i momenti dell’aborto. Testimonianza che il neoclassicismo per Eleonora non è uno schermo per la realtà, piuttosto un mezzo per la comunicazione sociale. La poesia si apre alle istanze di un’arte più realistica. Si sente l’influsso pariniano.
Andò a vivere prima con gli zii materni, poi alla discesa di S.Anna di Palazzo. Molti particolari della vita di E. sono venuti alla luce circa 20 anni fa, quando l’avv. Franco Schiattarella ritrovò il fascicolo del processo di separazione. Questo era conservato negli archivi relativi ai casi “civili” ed era pertanto sfuggito alla distruzione, che i Borbone avevano voluto di tutto quanto ricordasse le persone dei condannati, perché di essi non rimanesse ricordo alcuno. Così si è saputo che il Tria avesse dilapidato i patrimoni, facendo mancare alla moglie il necessario, così come nei contratti di matrimonio, non solo ma che avesse imposto, per qualche tempo, la convivenza con la “ cuffiara “ e sua figlia. Il Tria, inoltre, avrebbe ritirato ogni accusa nei confronti di E., forse in cambio di una somma di denaro. Morì dieci anni dopo.
Eleonora riprese i suoi studi, libera di poterlo fare. Tradusse dal latino l’opera del Caravita “ Nullum ius Pontifici Maximi in Regno Neapolitano”, che era stata messa all’indice. Quest’opera ebbe forte incidenza sul pensiero di E., che non si limitò solo a tradurla, ma aggiunse note e riferimenti. Quest’opera non era in quel momento sgradita al re, dopo il fatto della Chinea. Il tema della separazione tra Stato e Chiesa interessava Filangieri, Delfico, Pagano,Genovesi. E. nell’introduzione illustrava il problema, partendo dal Caravita e dal Giannone, definito “ campione e martire della causa nazionale”. Sappiamo da Giuseppe Gorani che, nel 1786, aveva anche scritto un libro su un progetto di Banca Nazionale. Progetto andato perduto. L’idea di nazione era già matura.
Nel 1791 era stata incaricata di tradurre dal portoghese l’Analisi della professione di fede del santo padre Pio IV . L’opera fu pubblicata a Napoli nel 1792 senza che il nome di E. vi comparisse. Inoltre nel 1792 compose la Fuga in Egitto, unica opera di carattere sacro ed ultima da intellettuale impegnata a corte.
Con lo scoppio della Rivoluzione Francese i rapporti di E. e degli altri intellettuali illuministi napoletani con la corte erano destinati ad interrompersi. E. fu licenziata dal lavoro di bibliotecaria della regina. In questi anni il panorama culturale a Napoli si presenta non unitario e non omogeneo. Da un lato i reazionari cominciarono a farsi sentire, dall’altro un intellettuale come Galanti vedeva nell’abolizione della feudalità la possibilità di evitare rivolgimenti. Nello stesso tempo la monarchia evitò manovre poliziesche e si mantenne sulla linea, che aveva portato all’abolizione della Chinea. Anzi Annamaria Rao ci informa che a Napoli si guardava dagli altri stati italiani e da Milano come esempio di stato riformatore, alieno da metodi incendiari. L’azione dei riformatori napoletani appariva un modello di alternativa alla rivoluzione, la ragione dei pochi contro la fantasia dei molti.
Purtroppo, quando nel 1793, fu ghigliottinata Maria Antonietta, sorella di Carolina, la monarchia abbandonò la linea delle riforme e prevalse la paura della rivoluzione.Fu introdotta una rete di spie, venne introdotto il reato di opinione, gli intellettuali illuministi vennero in sospetto ed a loro fu imputata la colpa degli orrori della rivoluzione. Tra parentesi c’è anche da dire che Maria Antonietta sembrava avere una grazia diversa dalla sorella, per cui la sua morte produsse un’eco forte e proteste nello stesso mondo degli illuministi francesi. A Napoli i “filosofi” diventarono i nemici per eccellenza, si scatenò una vera caccia ed a corte il posto di Tanucci fu ricoperto dal generale Acton, furono vietati i giornali stranieri, soprattutto il Moniteur, i patrioti furono schedati. D’altro canto i filo francesi si riunirono in club rivoluzionari a carattere repubblicano, mentre i sovrani entravano in campo antifrancese, accordandosi con gli Inglesi. Nel 1794 una prima ondata di repressioni portava all’arresto di alcuni membri della Società giacobina e Carlo Lauberg fu costretto alla fuga; i congiurati si attivarono per una insurrezione popolare, facendo leva sul malcontento, dovuto alla carestia dell’anno precedente ed alla guerra. Questo progetto fu stroncato dalla delazione e tre giovani furono giustiziati: Vincenzo Galiani, Emmanuele De Deo e Vincenzo Vitaliani. Mario Pagano li difese senza successo. Nel 1797 Napoleone creava in Lombardia la Repubblica Cisalpina ed a Roma nel 1798 veniva proclamata la Repubblica Romana. Spinta dall’Austria Napoli interviene a Roma. E. sospettata di sedizione viene incarcerata alla Vicaria. Tentò di scrivere al console portoghese de Souza, il che provocò un caso diplomatico, che si chiuse con le scuse del Portogallo. In carcere probabilmente scrisse l’Inno alla Libertà,che avrebbe pronunciato per la proclamazione della Repubblica Partenopea, e forse quel sonetto terribile contro i sovrani. Alla fine del 1798 i Francesi sconfiggono le truppe napoletane a Roma e comincia a rientrare. La famiglia reale abbandona Napoli con Nelson, mentre i lazzari assalgono la Vicaria, liberando tra gli altri anche E.,che nei tre mesi di carcere aveva fatto un’esperienza preziosa. Con altre patriote, delle classi medie ed anche dell’aristocrazia, E. partecipa all’occupazione del Forte di Sant’Elmo . Viene issata la bandiera tricolore, furono accolti i francesi di Championnet e ci fu il famoso “ballo dei francesi alla Certosa di San Martino”.
Inizia la vita della Repubblica, E. è un’oratrice eccelsa, che vuole farsi comprendere dalle popolane, parlando la loro lingua e cercando di mobilitarle alla causa. Insieme a lei si ritrovano: Laurent Prota, francese, Vittoria Pellegrini, popolana, e Cristina Clarizia, gentildonna. La sua opera maggiore fu la redazione del Monitore Napoletano, scelta forse dallo stesso Championnet. Il Monitore Napoletano durò 35 numeri, più o meno cinque mesi, dal 2 febbraio all’8 giugno del 1799. E’ stato ripubblicato da Croce e recentemente da M.Battaglini con un notevole apparato critico. Il Monitore usciva due volte alla settimana, il martedì ed il sabato. E’ questa l’opera di maggior rilievo di Eleonora. ( questione della fondazione ). Il Monitore nasceva con lo scopo precipuo di far conoscere al maggior numero di persone gli avvenimenti e le decisioni del governo repubblicano. Si richiedeva la capacità e la garanzia di mantenersi estranei alle fazioni interne. La Pimentel fu scelta proprio per questo. Così diventa giornalista, che nel Settecento sta alla pari di altre donne inglesi e francesi. Purtroppo la persecuzione dei Borbone ha oscurato una parte importante del suo ricordo, né l’Ottocento ha fatto opera di recupero. Il giornale era di fatto compilato quasi interamente da Eleonora: quattro pagine grandi,con un suo editoriale, con un’edizione anche per le province. Le questioni affrontate sono molte. Dalle colonne del giornale ella si misurò con pressoché tutti i problemi cruciali che si posero in quei pochi mesi affrontandoli con stile semplice ed efficace e con notevole indipendenza di pensiero. I rapporti con la Francia, che toccavano il delicatissimo punto dell’autonomia e piena sovranità del governo napoletano, furono trattati con grande cautela; ma il giornale non mancò di segnalare singoliepisodi di malcostume, di cui si resero protagonisti militari francesi talvolta giungendo, come nel caso del comandante militare della piazza di Napoli generale G. Rey, che si era impadronito delle collane dei Toson d’oro, allo scontro diretto. Essa credeva, in questo ricalcando il grande progetto giacobino dell’educazione politica del popolo, che uno dei principali compiti della Repubblica fosse l’azione pedagogica rivolta verso la plebe. “La plebe diffida dei patrioti perché non l’intende” scriveva sul Monitore (n. 3, 21 piovoso [9 febbraio] mentre invitava “qualche zelante cittadino a pubblicare delle civiche arringhe nel patrio vernacolo napoletano, onde così diffondere la civica istruzione in quella parte del popolo che altro linguaggio non ha”, e tentava una prima riflessione sui rapporti che la Repubblica doveva intrattenere con la plebe: “Questa parte del popolo comprende non solo la numerosa minuta popolazione della città, ma benanche la più rispettabile delle campagne; e se sopra di questa parte poggia pur nelle Monarchie la forza dello Stato, vi poggia nella Democrazia la forza non solo, ma la sua dignità” (ibid.). La propaganda in dialetto napoletano, una gazzetta in vernacolo che, a spese del governo, fosse letta nelle piazze e riportasse i più importanti provvedimenti presi dalla Repubblica, teatri di burattini e cantastorie che trattassero “soggetti democratici”, missioni civiche create sul modello delle preesistenti missioni religiose e affidate a ecclesiastici che avessero pratica di “persuasiva popolare” sono alcuni dei rimedi che la F. andò proponendo.
Di fronte alle notizie di stragi e devastazioni che giungevano dalle province si opponeva alla pratica del terrore messa in opera dall’esercito francese contro gli insorti, ricordando il terribile esempio della Vandea e l’inutilità della repressione ordinata da M. Robespierre (ibid., n. 5, 28 piovoso [16 febbraio]). Ancora ai primi di giugno, quando la fine era prossima, protestava contro una legge che, ordinando il sequestro dei beni degli insorti da destinarsi per metà ai soldati repubblicani, “promuove in materia così delicata un giudizio tumultuario…, quasi una dichiarazione di guerra e condanna anticipata de’ privati benestanti cittadini delle Comuni rivoltose” (ibid., n. 33, 13 pratile [1° giugno]). Dei provvedimenti economico-finanziari presi dal nuovo governo, la legge di riforma dei banchi elaborata dalla Commissione legislativa le parve totalmente insufficiente al fine di una politica di risanamento finanziario e al suo posto propose un suo progetto di riforma (ibid., n. 27, 22 fiorile [11 maggio]) che le attirò le critiche del giacobino Giornale estemporaneo (n. 8, 29 fiorile [18 maggio]). L’altro tema che la F. trattò ampiamente sulle pagine del Monitore fu quello della legge sui feudi. Non vi era questione, nel Regno, che fosse stata così largamente dibattuta come quella feudale, così che “dopo la disfatta del trono, ragion volea che seguisse immediatamente nella nostra Repubblica l’abolizione dell’oppressione feudale” (n. 18, 20 germile [9 aprile]). Al contrario, avvenne che i dissensi furono tali che la legge fu approvata solo alla fine di aprile, dopo una discussione che durò due mesi e quando ormai la controrivoluzione avanzava. Di quel dibattito la F. diede sul Monitore il resoconto più completo e lucido tra quelli lasciati dai contemporanei e, tra le due ipotesi che si opposero, quella radicale del Cestari e quella moderata di F.M. Pagano, appoggiò il progetto di G.L. Albanese che delle prime due costituiva una soluzione di compromesso (Galasso, 1989, pp. 633-660). Del resto essa sostenne sempre posizioni di grande equilibrio: “la saggia e sventurata Pimentel” dirà di lei V. Cuoco (p. XXXVIII), mentre Croce (1968, p. 52) del Monitore sottolineerà “la calma e l’elevatezza morale”.
Quando ormai l’armata francese si apprestava a lasciare Napoli, la F. dapprima non volle credere alle “voci ingiuriose” (Monitore, n. 23, 8 fiorile [27 aprile] per poi fare appello al “coraggio” e osservare che “un popolo non si difende mai bene che da se stesso … perché la libertà non può amarsi a metà, e non produce i suoi miracoli che presso popoli tutti affatto liberi” (ibid., n. 28, 25 fiorile [14 maggio]). Mentre gli avvenimenti si succedevano drammatici e rapidissimi sempre più, pubblicò, negli ultimi numeri dei giornale, solo notizie ufficiali e in quello dell’8 giugno, che fu l’ultimo, ancora riportava voci di vittorie repubblicane.
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(1) Domenico Rosato (Marcianise 1947); Laureato nel novembre del 1969 in lettere classiche; ha insegnato latino e greco per circa 38 anni prima al liceo classico di Thiene (VI) e poi al Cirillo di Aversa; è stato Dirigente incaricato presso l’ITIS Volta di Aversa e poi Dirigente di ruolo presso il Liceo scientifico di San Cipriano D’Aversa. Collocato in pensione per raggiunti limiti di anzianità di servizio e di età dal settembre 2013.