DOMENICO MUSONE di Innocenzo Parisella

 
 
 
Lettera di Federico Quercia inviata a Raffaele Musone, Carmina Latina del 1892.

Tra gli argomenti del programma, per le celebrazioni del Millenario, del­l’Archidiocesi di Capua (966‑1966), che si propongono di mettere in evidenza il contributo di essa alla vita religiosa e culturale del Meridione, io ritengo sia stata opportunamente inserita la commemorazione dell’insigne umanista dell’Ottocento, Domenico Musone, Canonico Primicerio del Capitolo Collegiale di questa Città. 1. Nonostante infatti la lotta, sempre più accanita ed ingiustificata contro la lingua latina, ed, in genere, contro le ingenue bellezze della letteratura classi­ca, siamo fermamente convinti che esse furono sempre e saranno in appresso il segreto massimo del vero, del buono, del bello nell’arte, finché almeno perdura questa civiltà, che, lo si voglia, o no, è tutta greca e latina. È con tale convin­zione che ho accettato volentieri l’invito gentilmente rivoltomi di commemora­re, in questa occasione, il Musone, soprattutto perché si tratta di un sacer­dote “latinista dotto quanto ignorato”, che, se non erro, merita di essere conosciuto ed ammirato dai cultori della lingua latina, regina del mondo  nei secoli.

Domenico Musone nacque a Marcianise, la simpatica città che ci ospita con tanta squisitezza, il 19 agosto 1811. Fu quindi il secolo scorso quello in cui visse il nostro umanista. E, per la, storia della cultura umanistica in Italia, il secolo XIX vuol dire un’epoca, in cui, nonostante i giusti lamenti, per il rallentarsi, in genere, degli studi classici. non mancavano ginnasi, come per esempio, quello degli Scolopi, dove c’erano veramente maestri dotti e famosi; in cui la cosa che si studiava di più e meglio era proprio il latino; mentre insigni cultori delle lettere classiche e quindi degli studia humanitatis, con il loro insegnamento e con le loro opere, meritavano di assurgere a risonanza internazionale; come,tanto per fare un esempio, Giovanni Battista Gantino (1827‑1905), filologo sommo e sommo umanista, che scrisse in prosa latina di eleganza ciceroniana, mentre insegnava, dal 1861 fino alla morte, letteratura latina, all’Università di Bologna. E proprio il Gantino, che, nella orazione tenuta in Campidoglio, il 23 gen­naio 1900, alla presenza del Re e della Regina, per l’assegnazione dei premi ai vincitori nelle gare di latino, tra i licei d’Italia, esortò vivamente i giovani a non stancarsi di coltivare le lettere latine, ma di considerarle sempre come lo stesso Palladio della Patria. (2). Secolo, il XIX, in cui, anche la poesia latina ebbe i suoi cultori. Che anzi di essi, alcuni sono degni di particolare menzione, come Diego Vitrioli. considerato il più grande umanista del secolo, cioè il più grande cultore de­gli studi classici, che cantò la pesca del pesce spada, mentre Alessandro Zappata cantava la pesca delle anguille di Comacchio e la caccia delle fola­ghe. Intanto, come il Vitrioli, anche Sofia Alessio e soprattutto Giovanni Pascoli, con le loro vittorie, nelle gare poetiche internazionali di Amster­dam, onoravano grandemente il mondo dell’umanesimo e l’Italia; insieme, tanto per menzionare i più illustri, con Giuseppe Albini, con il poeta gesui­ta Ottavio Cagnacci e con il sommo epigrafista, anche lui Gesuita, Antonio Angelini. (3)    Né va sottovalutato il fatto che, nonostante l’accusa di mancanza di latini­sti nel suolo onorato da Cicerone, Orazio ed Ovidio, umanisti e poeti, come i Sacerdoti Stefano Viglioni del Seminario di Aversa,(4) Pasquale Santamaria del Seminario di Napoli (5)  e Gennaro Aspreno Rocco di Afragola (6), con i loro scritti smentivano chiaramente gli indegni accusatori. Intanto il Cardi­nale Antonio d’Avanzo, Vescovo di Calvi e Teano (1811‑1884), al Concilio Vaticano I s’imponeva come  difensore della Latinità cristiana (7); mentre i grandi latinisti Mons. Alessandro Volpini (8) ed il servo di Dio Vincenzo Tarozzi (9), Segretari per le Lettere Latine di Leone XIII, grande umanista e poeta latino lui stesso (10), con le mirabili Encicliche e con i loro personali scritti, sia in prosa che in versi, davano l’impressione di avere restaurato l’e­poca aurea del Bembo e del Sadoleto, a fianco di un Pontefice, che, nono stante le altissime preoccupazioni del suo Pontificato, non seppe abbandona­re la sua musa latina; ed anche, nell’estrema vecchiaia, trattò con tanta sicu­rezza e grazia ora la cetra di Orazio, ora quella di Catullo, l’una e l’altra informando con l’anima di Virgilio; e scrisse versi, molti almeno dei quali ri­chiamano la forbitezza dei Frascatori, dei Navigeri e dei Flamini e di altri nobilissimi del Cinquecento, ma senza ombra di quel colorito pagano che nei loro lavori tanto ci offende.     Questo dunque è il clima di fervida ripresa di studi umanistici, cioè del culto dei classici latini, con il proposito di farne rivivere le bellezze alle giovani ge­nerazioni, nel quale il Musone compì i suoi studi nel Seminario di Capua ed esercitò, per più di cinquant’anni (11) il suo magistero.     Già come alunno, egli si distinse, non solo per la pietà e la serietà del com­portamento, ma anche per il profitto negli studi, mostrando subito predilezione per la lingua latina, in cui fece tanti progressi, da essere scelto, con pochi ed i migliori a sostenere un esame speciale, che consisteva nell’esporre a memoria tutte le opere del Venosino.

Ordinato Sacerdote, nel 1835, fu nominato professore di Latino nel Semina­rio di Capua, che, essendo allora Arcivescovo Francesco Cassano Serra, vive­va la sua età aurea, per il mecenatismo dell’Arcivescovo, che non solo volle istituire premi annui per gli alunni (12) del Seminario, che da quaranta aveva­no raggiunto la cifra di 150, ma anche volle fondare una Collegiata, per dotare degnamente i professori, vendendo, a tale scopo, le sue gioie ed argenterie.

Il nostro Musone tenne cattedra di lettere latine in Seminario dal 1835 al 1845; e dobbiamo ritenere, con molta soddisfazione degli alunni, se questi godevano, tutte le volte che lo incontravano, stringersi intorno al loro maestro di. un tempo e fargli festa.    Purtroppo noi non sappiamo nulla in particolare del suo insegnamento; dob­biamo però ritenere che il metodo sia stato quello usato dai grandi umanisti. che lo precedettero: fatto cioè di lettura costante e commento dei classici e di esercizio assiduo di stile; mentre avrà saputo con il suo esempio accedere nel­l’animo degli alunni l’amore per essi, continuando così la tradizione umanistica tanto affermatasi in Italia; quella cioè fatta di un umanesimo non esagerato, come quello di coloro che, con a capo il Bembo, ebbero un culto idolatrico per Cicerone da rigettare ogni altro autore latino ed ogni vocabolo cristiano, per­ché non ciceroniano; ma fatta di umanesimo equilibrato, che sa apprezzare ed usare il latino anche di altri autori, oltre Cicerone, e sa adoperare, con venera­zione anche il latino cristiano (13), contemperando con criterio ed armonia l’e­leganza classica, con le esigenze nuove del pensiero cristiano.  Quando però l’insegnamento del Musone dava frutti sempre più copiosi, egli fatto Canonico diacono a Marcianise, il 1845, Cantore nel 1848, Primicerio nel 1882.  Anche, comunque, lontano dalla cattedra, egli continuò sempre a coltivare gli studi classici, non solo scrivendo, ma insegnando latino, soprattutto al gio­vane clero; e non se ne astenne, nemmeno durante la penosa malattia, che lo afflisse negli ultimi anni, contento di aver compiuto la sua missione per la gio­ventÿ studiosa. E così, ricolmo l’animo di questa gioia, chiudeva la sua lunga giornata terrena a Marcianise, ad ottantuno anni, il 27 marzo del 1892.   “Fu il Musone un sacerdote esemplare, di fede viva, e di costumi illibati; nella sua Collegiata zelò il culto di Dio; e mantenne la concordia tra i suoi colleghi; fu nel suo male rassegnato completamente ai Voleri Divini; cantò le lodi di Maria e dei Santi, deplorò le sventure della Chiesa, come ne celebrò i trionfi” (14).  Quanto alla sua attività umanistica, essa, almeno come risulta dagli scritti pubblicati, rivela il Musone un abilissimo traduttore latino ed un egregio com­positore di versi latini, di ispirazione personale.

 I ‑ Il Musone abilissimo traduttore latino

Il Musone, formato alla scuola neoclassica, ed espirandosi all’esempio di al­tri cultori della lingua di Roma, volle cimentarsi nella versione latina di brani tratti da poemi Italiani.  “Intanto a nessuno sfugge quanto sia difficile arte quella di tradurre e qua­li precisi impegni essa comporti da parte del traduttore: un dominio assoluto della lingua e dei mezzi espressivi, una individua sensibilità di interprete e congeniali qualità di artista. E, se si tratta di un’opera poetica, altri elementi subentrano a rendere più arduo e coscienzioso l’impegno. Non è più soltanto questione di scegliere, per ripeterla con frase umanistica, tra conversio ad verbum, translatio ad sententiam, ed immutatio, ma è in ballo l’energia creatrice” del poeta, rivissuta in atto dal traduttore poeta, con tale intuizione e con tale intimità liricamente espressa, che nulla si perda, o si sciupi della bellezza formale, della intensità dei sentimenti e dei fantasmi poetici del mo­dello” (15).   Come traduttore, il nostro umanista va considerato nella tradizione umani­stica del settecento, “il secolo delle traduzioni e della meravigliosa ripresa del latino in Italia” (16); mentre si allinea molto bene con Girolamo Piacentini di Forlì, con il Sacerdote Domenico Zanni, con il gesuita tortonese Baldassarre Frambaglia, con il sacerdote Mario Parente di Sorrento e con il suo coetaneo Sacerdote Giuseppe dei Marchesi Toraldo di Tropea (1809‑1899).  Ma, mentre questi si orientava verso Dante, il Manzoni ed il Tasso, tradu­cendone in Latino la Gerusalemme liberata, il Nostro si sentìmaggiormente attratto dai Sepolcri del Foscolo. Ed a ragione, quando si pensi che l’autore di essi, classico fino alle midolla, aveva soffiato nel suo poemetto un alito di vita greca e latina, che, all’inizio del secolo, aveva affascinato il prof. Avv. Borgno, il quale con la sua versione latina del poemetto del Foscolo aveva ottenuto, per i suoi esametri, il primo premio dell’Accademia di Brescia.    La versione del Musone usciva dunque, quando ce n’erano, oltre quella del Borgno, anche altre, come quella dell’abbate Francesco Filippi, dell’abbate Bottelli e di L. Graziani, peritassimo di latino, come non pochi, che tanto piac­que al Tommaseo. Ma di tutte queste traduzioni o versioni allora esistenti, quella del Musone ‑da critici espertissimi come Pasquale Papa, fu giudicata la migliore. Si sentiva soltanto il rammarico che tale versione, per modestia dell’autore, era stata tira­ta a sole poche copie (Caserta 1880) e distribuite tra gli amici (17).  Evidentemente non possiamo, come vorremmo, anche per il tempo che ci è stato assegnato, dare ampio resoconto, di questa versione, né istituire, come fa Pasquale Papa, il paragone tra la versione del Musone e quelle del Filippi e del Graziani.                                                                   Considerandola, pertanto nel suo insieme, mi pare si possa, senza tema di errare, asserire, che la versione del Musone mette anzitutto in evidenza la ro­busta formazione umanistica dell’autore e la sua conoscenza profonda dei poeti latini, soprattutto di Virgilio, di cui egli aveva assimilato talmente la scorrevo‑ lezza e la morbidezza del verso, che, o aderendo fedelmente al testo, o parafra­sando liberamente l’originale, sapeva cogliere e condensar l’essenziale, per ren derlo in una dizione, quasi sempre curata e, non rare volte, plastica e vigorosa: degna, comunque, del classicismo del Foscolo, presente nella compostezza ar­moniosa delle immagini dei miti e delle memorie, nei vocaboli e nelle costru­zioni; degna anche del romanticismo del poeta dei Sepolcri, presente nei moti­vi che circolano dentro quelle forme, e nei sentimenti che lo animano.                                                                                                                    Ed ora ci sia consentito di riportare qualche passo dei Sepolcri, con la versione del Musone, perché possiamo ammirare in lui la tempra del traduttore, che sa maneggiare la lingua ed aderire al testo, ma senza pedanteria.

Ecco innanzitutto il passo dei Sepolcri, in cui il poeta esprime a Pindemonte il concetto del nulla dell’oltretomba, di cui, del resto, egli informa tutto il car‑ me, dicendo che anche la speme ultima Dea u e i sepolcri ecc. (vv. 16‑22).                         Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme ultima dea fugge i Sepolcri; e involve le cose l’oblio nella sua notte; e una forza operosa le affatica di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe e l’estreme sembianze e le reliquiedella terra e del ciel traveste il tempo. (vv. 16‑22)

Così il Musone nei suoi esametri:                                                                                                     Verum, Pindemonte, fugit vel diva suprema Spes tumulos, Letheque suis involvit in undis Omnia motuque aeterno vis magna fatigat, Atque homines, tumuli rerumque extrema figura Necnon relliquiae caeli terraeque novabunt Formas .. .  “Quivi ‑ così giustamente Pasquale Papa ‑ la solenne armonia dell’originale è conservata mirabilmente, e la versione sarebbe perfetta, se, al posto di quel magna, fosse un altro aggettivo, che esprimesse, in certo modo, il concetto foscoliano del­l’operosità di questa forza che agitat molem, e la trasforma”. I due verbi intanto in­volvit e fatigat ci fanno pensare a Virgilio, cui, in casi simili, essi furono cari. Stupenda è anche, senza dubbio, la versione dell’altro brano, in cui, come in una preziosa cornice, si vede una cagna, un teschio ed una upupa svolazzare su per le croci, per la funerea campagna:

Senti raspar tra le macerie e i bronchi la derelitta cagna ramingando su le fosse e famelica ululando e uscir dal teschio, ove fuggia la luna l’upupa e svolazzar su per le croci sparse per la funerea campagna; e l’immonda accusar col luttuoso singulto i rai dì che son pie le stelle alle obliate sepolture. (vv. 78‑86)

Scenario cupo e macabro, che corrisponde al gusto allora di moda, in cui l’u­pupa, come già nel Panni, è considerata erroneamente come un uccello nottur­no simile alla civetta; e perciò è detta immonda ed il suo grido è un singulto il singulto della civetta che pare annunzi sventura. Ascoltiamo il. Musone: i

… Inter dumeta, rudesque  – Macerias canis auditur pede scalpere terram, – Sola super tumulos errans, cranioque erumpere upupa Cauta ubi vitabat lunam super atque volare – Dispositas per rura cruces funesta, querique- Infausto lucem singultu obscoena volucris- In tumulos, quorum cepere oblivia vivos, manantem ex astris …

Versi questi che, come ognuno facilmente osserva, non si possono leggere, senza sentirsi riecheggiare nelle orecchie l’ululato delle cagne e dei lupi che Virgilio enumera tra i prodigi avvenuti per la morte di Cesare, a Roma.

Oh quanta aderenza al testo originale, quanta vivacità di stile, quanto colori­to tutto Virgiliano, sia nella versione dell’apostrofe a Firenze, “uno degli squarci più raggianti di poesia che il Foscolo abbia mai scritto; sia nella versione del brano, in cui è descritta quella vertiginosa fantasmagoria del campo di marato­na; quando, tra il balenar d’elmi e di cozzanti brandi, durante i notturni silenzi, si spandea lungo nei campi, di falangi un tumulto e un suon di tube e un incal­zar di cavalli accorrenti, scalpitanti sugli elmi ai moribondi e, pianti ed inni e delle Parche il canto. (vv. 205‑212).

Ed ecco come bellamente il Musone rende in latino il passo menzionato:

Et campis sileat cum nox horrenda, tumultus Turmarum longe auditus clangorque tubarum

Atque gemitus, hyminique, trium cantusque sororum. Et genitus, hymnique, trium cantusque sororum.

Non mi pare ci voglia molto per concludere che in questi esametri del Muso­ne, quantunque l’emistichio “clangorque tubarum” (uno squillare di tromba) è preso da Virgilio, che descrive la caduta della grande casa di Deifodo e l’incen­dio del vicino Ugalegonte tutto è limpido, fluido, armonioso, come l’originale.

Pur dovendo omettere, con rammarico, altri brani tradotti egregiamente in latino dal nostro umanista, non posso fare a meno di farvi sentire come egli ha, con finissima arte, volto in latino l’ultimo brano dei Sepolcri, in cui il Foscolo ci presenta il vate mendico che brancolando nelle tenebre, penetrerà nelle urne e le interrogherà. “Ed all’immensità spaziale, in cui risuonerà, per il canto di Omero, la gloria dei vincitori Argivi, corrisponde l’immensità spaziale e tem­porale della gloria di Ettore” (18), “finché il sole risplenderà sulle sciagure umane” (vv. 279‑295).

Ed ecco il Musone:

Tempus longe antiquis cum errabit in umbris Mendicans coecus vestris, aditsque sepulchri Pertentants manibus penetrale subibit, et urbans Complexus responsa rogabit. Coeca dolebunt Antra, et subversum bis tunc monumenta loquentur Ilion et totidem muta regione refectum

Ut genus auferret Pelei fatale tropaeum

Splendidius. Vates divinus carmine mulcens Moerentes umbras, quotquot complectitur ingens

Oceanus pater, argivos per saecula reges

Extollet terris. Lacrymarum tu, Hector, habebis Munus, ubi sanguis patrio profusus amore Sit sacer, et luctu dignatus, donec et almus

Sol hominum innumeros lustrabit lampade casus.

Ci fermiamo qui. Certo non tutto nella versione del nostro umanista ‑ è per­fetto, né poteva esserlo, come nessuna opera umana è perfetta. Le poche ine­sattezze però riscontrate da altri e che il poeta, in un’altra edizione, avrebbecorrette, se non lo avesse sorpreso la morte, non valgono ad intaccare il magi­strale maneggio della lingua latina e gli altri pregi innegabili di fluida scorre­volezza del verso e di senso poetico. Doti queste che ci è dato ammirare, anche nella versione latina, in metro elegiaco, del coro di Ermengarda e del Cinque Maggio  in metro alcaico (19) del Manzoni. Due altre versioni queste che fanno gustare al lettore la dolcezza e la signorilità del verso, tanto caro a Tibullo e la perfezione dell’uso del metro alcaico, tanto caro ad Orazio; unitamente al buon gusto ed alla fine personalità dell’artista che dimostrano chiaramente che il Musone ha spesso la tempra di autentico traduttore.

 II ‑ Opere di ispirazione personale.

Il nostro umanista però, a differenza del Toraldo, che legava il suo nome, forse per troppa modestia, soltanto alle sue opere di traduzione, lasciò anche li­bero sfogo al suo ingegno in opere di ispirazione personale.   Egli infatti lasciò nello scrittoio moltissimi componimenti, dai quali ne scel­se soltanto alcuni che s’incominciarono a pubblicare, mentre era ancora in vita. Ed anzi egli stesso corresse i primi tre fogli delle bozze, quando rimessosi da una influenza, da cui era stato colpito, ricadeva in un’altra malattia, che, ribelle ad ogni rimedio dell’arte, lo trasse inesorabilmente alla tomba. I fratelli Miche­le e Raffaele, premurosi di soddisfare la volontà dell’estinto, continuarono la pubblicazione; e, nel 1892, vedevano la luce i suoi carmi latini.

Certo, considerando solo la mole della produzione poetica del Musone, al­meno quella stampata, dobbiamo subito osservare che essa non regge al para­gone, tanto per portare un esempio, con le Lucubrationes del Viglioni, già no­minato, e di cui mi sono occupato a lungo in altra sede.

Quantunque però si tratti di un volumetto di appena 88 pagina, si può, senz’al­tro, affermare che esso contiene componimenti poetici, dei quali, parecchi alme­no devono esser considerati non come esercizio soltanto di un abile verseggiato­re, ma come vere composizioni, ricche talvolta di forte affilato poetico.

La prima impressione che si riporta, a lettura finita dei carmi del Muso­ne, è che egli era dotato di una grande facilità nel maneggio dei vari metri lati­ni, dei quali, ora, e più spesso, usa l’esametro, ora il metro elegiaco, ora l’alcaico, ora infine l’endecasillabo faleucio, a seconda dell’ispirazione dei clas­sici dettati durante il cinquantennio del suo insegnamento di lettere latine.

Il mondo poetico dei carmina è vario: ve ne sono infatti laudativi, come quello in onore di Leone XIII e degli Arcivescovi Alfonso Capecelatro e Fran­cesco Cassano Serra; commemorativi, come quelli per il centenario della bat­taglia di Legnano e per la venuta di S. Pietro a Capua ed a Roma; religiosi, co­me quelli in onore di Maria SS., dei Santi Giacchino ed Anna e S. Tommaso d’Aquino. Ai quali vanno aggiunti carmi ed epigrammi ispirati da varie circostanze, liete, ora tristi, riguardanti persone care al poeta.

Sensibilissimo per avvenimenti, anche apparentemente non di grande rilievo, il Musone ama effondere i suoi sentimenti, ora di devozione, ora di giubilo, ora di ansia, ora di tristezza, di sdegno, di gratitudine di amor patrio; e sempre con eleganza ed armonia virgiliana o, con movenza oraziana, da far rivivere, nella lingua del Lazio, le fresche bellezze dei poeti latini.

Il che, in verità, non gli doveva riuscire difficile, perché ‑ è questa l’altra im­pressione che si riporta da un esame attento della produzione poetica del Mu­sone ‑ egli non era un dilettante di poesie latine, come molti, che, per fare sfoggio della loro cultura classica, scrivono componimenti intarsiati di frasi poetiche, vuote di contenuto; al contrario i suoi pensieri ed i suoi affetti sem­pre elevati, nobili, gravi trasparivano in una lingua che era loro propria. Che se poi il nostro poeta non raramente risente, e talvolta, diciamo la verità, non po­co nei suoi carmi, di reminiscenze dei migliori poeti latini, ciò non vuol dire che egli sia un plagiaro, ma che piuttosto egli ha assimilato tanto i loro scritti, da non sapere trattare alcuni argomenti, senza inserire spontaneamente nei suoi carmi, come gemme preziose, reminiscenze dei poeti latini preferiti.

Nonostante quindi le reminiscenze, il nostro poeta è dotato, se non sempre, almeno spesso, di ricca vena poetica, e, più di una volta, si dimostra originale, soprattutto per la nobiltà dei concetti ,la leggiadria delle immagini, con cui bellamente li riveste.

Come non ricordare, in proposito, il carme epico, composto per il giubileo sacerdotale del grande Papa umanista e poeta Leone XIII, celebrato so­lennemente il 1887.

In tale carme epico il Musone, dopo aver constatato con gioia, che, mentre

Iam regum terrae solium ceu fumus in auras Dispergi solet, aeternis premiturque ruinis Est Vaticanum contra solidissima turris Cad Tyberis ripas coelo pinnacula tollens,

con accenti sinceri di profonda devozione ed omaggio per il Vicario di Cristo, ne mette in evidenza le glorie e le benemerenze, per l’Italia e per il mondo, so­prattutto, quando, “novello Mosè”, gli dice:

Suplex ipse noctuque diuque supinas Pro nostra Italia attolis;

mentre nella chiusa del carme, che può considerarsi un grido di vittoria e di fe­de per trionfi della chiesa e del Pontificato Romano, ne esalta la indistruttibi­lità, con la certezza dell’Arcangelo di Dio riporterà l’Italia in pace e sottomessa al Vicario di Cristo.

Inoltre, quanta proprietà di linguaggio, quanta eleganza di stile, quanta venustà di immagini e morbidezza di versi, nella elegia in onore del San­nazzaro Musarum praecipuum decus , e nelle elegie in onore del grande Cardinale Capecelatro, sia che si congratuli con lui per la nomina ad Arci­vescovo di Capua, sicuro che, sotto il suo governo

Diocesi nostrae auri saecla redibunt

Bellarmini aetas aurea rursus erit;

sia che lo ringrazi della lettera pastorale sul digiuno indirizzata ai fedeli dell’Archidiocesi, per la quaresima del 1883, o della prima visita fatta a Marcianise, suo paese natale. Aveva da poco ottenuto il titolo di città Marcianise, quando ricevette la visita del suo Pastore. Ed il poeta, per la circostanza, è lieto di potergli offrire lo spettacolo di tante cose belle: dai fertili e verdeggianti campi che l’agricoltore, il quale si distingue, per la sua semplicità, coltiva con gioia e passione, ai grandi palazzi, che non mancano, come non difettano personaggi illustri, insigni magistrati ed un clero onorato.

Che, se Marcianise ‑ aggiunge il poeta ‑ resta inferiore a Capua in altre cose, non le resta inferiore, per l’amore verso il medesimo padre, per il quale i figlio­li pregano da Dio vita lunga, senza affanni e preoccupazioni, mentre sono con­vinti, che le accoglienze oneste e liete tributate al Cardinale Arcivescovo, sia a Capua nel giorno del suo ingresso (21 novembre 1880) (20), sia a Marcianise, sono un segno della perenne vitalità della Chiesa.

Che dire di quei delicatissimi e saporitissimi epigrammi estemporanei, composti dall’autore subito dopo la visita al Colosseo ed alla tomba del Tasso o di quello, in ringraziamento alla Vergine, per averlo guarito da tanti ma­li, l’anno stesso della morte. In essi il lettore potrà ammirare, con la delicatezza dei sentimenti, le doti proprie del genere epigrammatico; cioè: la brevità, l’acu­tezza e l’arguzia delle espressioni.

Rilevante è pure, almeno in alcuni carmi, l’abilità descrittiva del poeta.

Mi riferisco soprattutto al carme dedicato al fratello Raffaele, in cui descri­ve le terme di Casamicciola, dove egli s’era portato nel 1875, per la cura; ed al carme dedicato al cenobio di S. Lucia presso Caserta, in cui il poeta men­ziona il monte Tifata, con i giochi massicci ed il Falerno, la fertile Campa­nia, che mette in evidenza allo spettatore un imenso giardino, circondato da colli feraci e dal mare Tirreno, mentre si può scorgere, tra tante bellezze, all’estremo limite dell’orizzonte, Partenope Italiae totius ocellus, che si ada‑ gia declivia supra / Molta Tyrrenas collis recubantis ad undas, con il Vesu­vio che drizza verso le stelle il pennacchio di fumo. Scenario stupendo questo fatto di silenzio, che è rotto soltanto dal rombo, simile a scroscio d’acqua, di un aereo che vola alto sull’aperta campagna, come un fulmine, e saluta la reggia di Caserta, sovrastante le altre case, opera del Vanvitelli, cui tantae gloria molis ingenio prope divino debetur et arte.

Uno solo è il rammarico del poeta: che cioè ormai non regna più quel silen­zio in cui si percepiva, lontano da ogni strepito, la voce dello stesso Signore: Haec fuerunt olim, sed quae nunc recurrit

Aetas vandalico subvertir more quietem .

E potremmo continuare, se avessi ceduto, fin da principio, alla tentazione di mettere da parte qualsiasi discorso e di scegliere alcune delle poesie più belle del nostro umanista, per recitarle intere alla vostra presenza.

Non essendomi ciò consentito, anche per la mancanza di tempo a mia dispo­sizione, mi sia lecito chiudere questa rapida rassegna, accennando almeno a due carmi di più largo respiro: l’uno, in cui il poeta canta il vaticinio della nuova Pompei da edificare, intorno all’Augusto Santuario di Maria SS. del Rosario; l’altro il più lungo, che è un vero poemetto latino ispirato alla venuta di S. Pietro a Capua ed a Roma.

Nel primo, oh come si compiace il poeta nel fissare lo sguardo attonito sulla moltitudine di pellegrini che fanno ressa in ogni angolo del Tempio e rassomi­glia alle foglie che, d’autunno, cadendo dai rami si addensano a terra; mentre nell’altro distribuisce tutta l’azione in nove scene, che sono altrettanti quadri di una magnifica galleria.

Può così il lettore seguire l’arcangelo Michele nel suo volo, più veloce del fulmine, verso Antiochia, con l’ordine all’apostolo Pietro di recarsi a Capua ed alla grande Roma, dove regna l’idolatria (I); può accompagnare la nave che salpa, tra venti propizi, con l’angelo dei Campani sull’alta poppa, tra l’esultanza delle montagne tutto intorno e delle ricurve sponde (II); mentre il poeta, con vivacità di stile ed eleganza di forma, effonde tutta la sua gioia al pensiero del novus rerum ordo, che inizierà a Capua con l’Apostolo Pietro (III). Segue la descrizione di questo apostolato di bene, con la conversione di molti alla vera fede (IV), e la consacrazione di Prisco a suo successore, che avviene tra il

plauso delle sponde del Volturno ed il sorriso di una luce riposante nel cielo: dum littora plaudunt Volturni caelumque arridet luce serena (V).

Bellissima, senza dubbio, la scena dell’addio di Pietro a Prisco; commovente la consegna che al successore lascia l’Apostolo, quando lo esorta a farsi tutto a tutti:

Ut ducas ‑ gli dice ‑ coecos, supponas brachia claudis, Infirmos cures, tuerae parentibus orbos, – Soleris viduas, doceas et sacra fideles- corripias duros, errantes atque reducas..- Cristusque per ora – Cuncta sonet, verumque Deum plebs omnis adoret (VI).

E come è efficace la descrizione dell’addio di Pietro dai suoi Capuani, che re­stano con la nostalgia nel cuore, dell’Apostolo (VII) che essi non cessano di chiamare, come fa la tortorella infelice che, attraverso la campagna ed i boschi reclama con gemiti la prole rapita (VIII).

Infine, con una rapidissima rassegna dei successori di Prisco, e con una par­ticolar e menzione del Cardinale Capecelatro, che racchiude in sè le doti di tut‑ ti i predecessori e la cui fama è già diffusa per tutta l’Europa (IX), termina il carme più lungo del nostro umanista, lasciando nell’animo soavissimi senti­menti e molta ammirazione per l’autore di esso.

 Conclusione

Quanti nel mio uditorio hanno avuto finora la pazienza di seguirmi saranno certamente d’accordo con me, nel ritenere che il Canonico Primicerio Domeni­co Musone, il quale espressamente dice di aver coltivato la lingua latina in tut­to il corso della vita, “avendola insegnata alla gioventù studiosa per più di cin­quanta anni”, è davvero un insigne umanista del secolo scorso; ed, almeno in alcuni carmi non solo abilissimo verseggiatore ma vero poeta, talvolta anche originale, dalla vena facile e ricca, e, per la valentia nel trattare la lingua latina, per la nobiltà dei concetti, la scorrevolezza armoniosa e ben misurata del verso, degno di essere conosciuto ed ammirato e di sedere ac­canto ad un Viglioni, ad un Pasquale Santamaria, ad un Aspreno Gennaro Rocco, che, sacerdoti, come lui, onorarono nello stesso secolo, il loro sacer­dozio ed il mondo delle lettere classiche.

Che se il Musone volle classificare i suoi carmi semplici “corbellerie”, ciò si deve a quella modestia, che, nello stesso secolo, circa cinquant’anni prima, suggeriva al Viglioni, più volte menzionato, di ritenere “rozzi” i suoi carmi ed addirittura “cosa da nulla” le sue lucubrationes, che, al contrario, furono tanto ammirate ed elogiate dai letterati del tempo (21).

Siamo però ben lontani dal ritenere il Musone un Virgilio, un Orazio, un Ovidio, un Catullo, o Tibullo redivivi, anche perché poetò in una lingua scom­parsa da tanti secoli dalle labbra del popolo. Dirò soltanto che valeva davve­ro la pena di commemorare, rivendicandolo dall’ingiusto oblio, un sacer­dote, che dimostrò con il suo lungo insegnamento, di essere un appassio­nato cultore della lingua latina, nella quale seppe volgere egregiamente brani di poemi Italiani, con la quale seppe comporre carmi, di cui parec­chi rivelano la mano del vero poeta.

Mi sia consentito chiudere questa modesta commemorazione, con il vo­to che siano ristampati i versi del Musone, in una edizione più degna; e con l’augurio che la tradizione umanistica di Capua iniziata dal Cardinale Ar­civescovo S. Roberto Bellarmino e tenuta in vita ed efficenza da umanisti, co­me Michele Monaco ed il Mazzocchi, non solo non abbia ad affievolirsi, ma debba accendersi di novella luce, soprattutto per opera di altri sacerdoti di questa insigne Archidiocesi, con il culto continuo ed appassionato della lingua la­tina, che, nonostante tutti gli attacchi, nonostante l’atteggiamento d’indifferen­za e di lotta tra le nuove generazioni, resterà sempre, per ripetere una frase tan­to cara all’insigne latinista E.mo Cardinale Bacci, “la lingua più precisa, più logica, più scultorea del mondo” (22).

Cfr. Vol. I, C ollana Risvegli Culturali, Il Contribuito dei cattolici alla storia letteraria umanistica nell’800 in Terra di Lavoro – L’Umanista Domenico Musone – pp.107-122; Marino (Roma) 1994.

Cfr. Dal volume “Il contributo dell’Archidiocesi di Capua alla vita religiosa e culturale del meridione – Un Umanista Del Secolo scorso: Il Can. Domenico Musone di Innocenzo Parisella. Ed. De Luca ‑ Roma 1967, pp. 373‑88.

Mons. Innocenzo Parisella ‑ nato il 16.07.1910 a Fondi ‑ Diocesi di Gaeta, insegnante di Teologia al Seminario di Viterbo; assunto alla Congregazione del Concilio ‑ Città del Vaticano, come aiutante di Studio, fu nominato udito­re della Sacra Rota di Roma; morto il 10.05.1992.

NOTE

(1) R. Marra, Domenico Musone, in la Campania sacra, 1892, IV, p. 110

(2) Springhetti, Selecta Latina scripta, Romae, 1951, pp. 36‑38.

(3) I. Parisella, De Latinis Insciptionibus ad honorem Deiparae Virginis Mariae ob Antonio Angelini S.J. compositis, in Latinitas, 1956, II, pp. 125‑35.

(4) I. Parisella, De Latinis carminibus Stephani Viglioni domo Maleti, in Latinitas, 1964, IV, pp. 280‑95.

(5) V. De Crescenzo, Il canonico Pasquale Santamaria, Napoli, 1918, pp. 18.

(6) Gaetano Capasso, Gennaro Aspreno Rocco, Napoli,1956, pp. 401.

(7) I. Parisella, Un insigne latinista d fensore della latinità cristiana al Concilio Vaticano I, in Rivista Diocesana di Ro­ma, 1966, II, pp. 240‑46.

(8) V. Zannoni, De Alexandro Volpini optimae in Romana Curia Latinitatis restitutore, in Latinitas, 1958, I, pp. 21‑35.

(9) I. Parisella, De Vincentio Tarozzi carminum ei titulorum conditore, in Latinitas, 1956, II, pp. 137‑47; De Vincentio Tarozzi pereleganti prosae orationis scriptore, in Latinitas, 1956, III, pp. 215‑225; De Vincentii Tarozzi praestantia in Italicis scriptis Latine reddendis, in Latinitas, 1958, III, pp. 211‑17; La Fondazione dell’Istituto di Alta Letteratura v. ? Tarozzi, in La Pontificia Università Lateranense, Roma, 1963, pp. 349‑52.

(10) A. Bacci, De Leonis XIII Pont. Max, Latinitate, quinquagesimo exacto anno ab eius obitu, in Latinitas, 1953, IV, pp. 253‑60.

(11) Carmina Latina a Dominico Musone primicerio Collegiatae S. Michaelis Archang. Martianisii elaborata et typis edita, Martianisii, 1892, p. 5.

(12) Lo ricorda espressamente il poeta nella elegia a Salvatore Borrelli, canonico della Cattedrale di Capua: Quid demum referam, ut sacros Franciscu alumnos

In studia, et rectum sedulus alliceret? – Hoc opus, haec illi curarum maxima, digni

Sacra ministeria ut perficerent juvenes.- Hoc usque urgebat genus omne hortantibus illos – Praeceptis, donis insuper eximiis

                        …………….

Maecenas hac arte novus revocavit ad oras- Volmturni extorres antea Pierides;

Et nova progenies studiis operata sub umbra- Illius accrescens omnia fausta dedit…

(op. cit. p. 21).

(13) In proposito, si leggerà con profitto l’articolo del Card. A. Bacci, La lingua Latina nella tradizione cristiana e nella cultura moderna, in Oikoumene, Catania, 1964, pp. 15‑37.

(14) R. Marra, Domenico Musone, in La Campania sacra, 1892, p. 11 l .

(15) B. Riposati, Giuseppe Toraldo nella tradizione umanista dei traduttori latini, in Aevum, 1951, 5, p. 387.

(16) E. Springhetti, L’ultimo traduttore Latino della Gerusalemme liberata del Tasso. (P. Giuseppe Toraldo di Tropea) in Civiltà cattolica, 1950, p. 738.

(17) n. 1, Sappiamo pure che la versione del Musone fu pubblicata sull’Araldo di terra di lavoro, il 10 aprile 1892.

(18) C. Cappuccio, Poeti e Prosatori Italiani (Antologia), San Casciano Val di Pesa,1964,  p.147.

(19) Carmina, ecc. pp. 27‑30. Ecco con quanta soavità il Musone rende in latino la prima strofe del coro di Ermengarda: Sparse le trecce morbide, ecc:

Innexas resoluta comas in pectus anhelum – Lenta manus nivea uvida morte genas

Decumbit pia lecto, oculisque natalibus alto- Exquirens lucem iam maritura polo. (p. 27)

Ed ecco, con quanta aderenza al testo in latino le due ultime strofe del Cinque Maggio: (pp. 30‑32). Bella immortal bene­fica fede ecc.:

0 pulchra, in omnes o benigna, Imperitura Fides triumphis

Adsueta, fastis scribe vel hunc tuum Sollemniorem, laetitiam exere, Sublimior nunquam Potestas Se crucis opprobrio subegit: Fessis laborum disjice ab ossibus Voces malignas, qui premit et levat, Affligit et lenit, relicto

Astitit Omnipotens cubili

(P. 32).

(20) P. Borraro, Il Cardinale Alfonso Capecelatro, Caserta, 1964, Estratto dall’Archivio storico di Terra di Lavoro, p. 653.

(21) Confr. I. Parisella, De Latinis carminibus Stephani Viglioni e domo Maleti, in Latinitas,1964, IV, p. 295, nota 63.

(22) A. Bacci, Un insigne umanista dell’Ottocento, Giuseppe Toraldo, in Docete,1950, p. 315.

 

 

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