Nacque a Marcianise il 1° Novembre 1872 da Giuseppe ed Angela Di Benedetto, morì a 31 anni, il 1° Novembre 1903.
Nel breve giro dei suoi pochi anni di vita, tracciò a grandi linee il suo dramma di amore, di poesia e di martirio, in cui, il suo poderoso ingegno e l’audacia orgogliosa della sua giovinezza furono animati da una indomita volontà di vivere, nell’ampio ritmo di luminosi fastigi e di balde vigorie.
Madre natura gli aveva stampato nel cuore la impronta del genio ed il crisma della gloria, ma fu un naufrago, perchè un crudele destino gli troncò il passo a metà strada; cadde come aquila trafitta nel suo volo potente, e la sua esistenza si chiuse, lasciandoci un frammento solo di quello che poteva essere un orgoglioso monumento.
Giovanissimo, conseguì a pieni voti la laurea in filosofia e lettere, e pieno di entusiasmo si lanciò nell’agone dei grandi, tra gli spiriti elettivi, ove ben si adagia il suo, esuberante di fede, con l’ansia di cogliere le vibrazioni sublimi delle anime elevate.
Dedicò i primi palpiti della sua anima al giornalismo; egli aveva vissuta una vita di angustie e di speranze, amò gli oppressi, ne sposò la causa e lottò assaporando gioie e dolori.
Fu di quella corrente che raccolse perplessa l’ansia del grave problema sociale, di cui il proletariato poneva la contrastata e tormentosa soluzione, di fronte alla riprovevole inerzia dei passati Governi, e con fede purissima pubblicò articoli di una eloquenza nuova, tutta propria, per la forza laconica di suggestione e di fascino.
Dalla sua penna si sprigionò tutta un’ondata di forza e di volontà, in uno stile alto, armonico e fiero; a Napoli, a Milano, a Roma, ove con Enrico Ferri fu alla direzione dell’Avanti!, che più tardi conobbe la illuminata guida di Benito Mussolini, il suo nome risuonò tra i migliori del giornalismo Italiano.
Fu collaboratore con Michele Bianchi, il Quadrumviro della Marcia su Roma, del giornale Il Grido delle Calabrie che reclamava i diritti conculcati di quella vasta plaga, oggi superbamente risorta e potenziata dal Fascismo, nel campo della civiltà e del progresso.
Nel 1897, una falange di giovani eroi, perpetuatori dell’Epopea Garibaldina, che tanto contributo di sangue generoso aveva dato alla grandezza della Patria nostra, indossarono la gloriosa camicia rossa dell’Eroe dei due Mondi, e sotto la guida del figlio Ricciotti, si accesero di nobile fervore per la causa Ellenica.
Domenico Santoro fu primo tra i primi; egli poeta, sentì nel suo cuore l’impulso frenetico di immolarsi per la terra, che era stata la prima culla della poesia e cantò l’inno: E’ bello morire sul campo sognando la gloria.
Lasciò i più sacri affetti, incantato dal canto di Tirteo, e partì, sognando le diane, ed il rullo pugnace contro il Turco oppressore.
La nobile schiera ebbe il battesimo del fuoco, sugli spalti di Domokòs, poco lungi dalle gole, ove ancor palpitava l’anima delle Termopili, e caddero le giovinezze Italiche a diecine, bagnando del loro sangue vermiglio le alpestre rocce della Tessaglia, scrivendo pagine sublimi di eroismo e di gloria, troppo ingiustamente dimenticate.
La morte lo risparmiò, ed egli volle eternare quella gesta gloriosa nel suo libro «La Primavera Ellenica» pubblicato nel 1900, dedicato alla memoria di Antonio Fratti, (l’eroico Figlio delle Romagne, già volontario di Garibaldi a Bezzecca, Mentana e Digione, caduto da garibaldino nella battaglia di Domokòs) in cui, nel purissimo stile quasi Manzoniano, consacra tutto il patos di quel pugno di eroi, che legarono il loro destino alla causa dell’umanità.
Magnifica è la chiusa del libro, che mi piace trascrivere integralmente:
Ah! se vi è gente italica, che ancora sa morire; se ancora vi è una gioventù, che, memore della nostra epopea, osa passare balda, bella e sorridente, dalla modesta stanza da studio al campo di battaglia, e alla morte trasvola come a letto nuziale, no, per la Patria nostra, non tutto è perduto. Essa vivrà grande e sublime nei secoli..
Poichè sopra di noi, fascio di luce smagliante, veglia sempre il Nume, che assistè i combattenti di Domokos, vestiti — dolce memoria — della rossa fiammante camicia, terrore di despoti e suscitatrice di speranze nel cuore degli umili. Poichè, in alto in alto, nel tempio degli dei indigeti, fissante l’occhio azzurrino e sospirato, sta sempre il Duce dalle mille vittorie, l’Eroe dalla criniera bionda, che la vittoria aveva ravvolta nel fodero della sua bandiera: Giuseppe Garibaldi!
Ho voluto con deliberato proposito riportare questo brano, per far assaporare la bellezza della prosa del Santoro, da cui traspare tutto il lirismo della sua anima di poeta, prosa armoniosa in cui tutto si eleva in una mirabile colorazione di armonie e di suoni. Ed in questa prosa, quanta italianità: la Patria, prima della Famiglia, ed un’Italia più grande, più temuta e più rispettata.
Ci restano ancora di lui alcuni altri scritti, tra cui: I giornalisti nella Rivoluzione Francesce, l’Arte di Emilio Zola, pubblicati nel 1910, dopo la sua morte; La veglia di Venere, scapigliatura napoletana; Valle di Pompei – rime; Uno studio su Torquato Tasso, che si meritò il primo premio della Dante Alighieri, meravigliose battute di quella vigilia, che preludiava un’alba radiosa.
Così mi piace concepire Domenico Santoro: giornalista eroe e poeta, inquadrato nel suo umano e naturale ornamento; ogni altra cosa è povera cosa, dolorosa vicenda in cui il suo crudele destino lo trascinò tra i rovi e gli sterpi di un travagliato sentiero, che ne delineò crudelmente la fine.
Al suo nome, in Marcianise, è dedicata una strada, e le sue ceneri riposano in un ricco sarcofago, nella Cappella del Comune.
Nel 1924, lo scienziato Prof. Errico Ferri, rievocando la figura di Domenico Santoro, scrisse: Fu Egli una forma di vita nobilissima e bella, con la febbre dell’ideale, con l’eroismo del sacrifizio.
E più oltre: Domenico Santoro passò come una meteora, ma lasciò una scia luminosa, l’alito fecondo di una fiamma, che non si spegne.