Visse nella prima metà del 1600; fin da fanciullo mostrò straordinaria inclinazione al disegno; a secondare tanta predisposizione, i suoi genitori lo mandarono a Capua presso un artista in pittura, che si opina essere Alessandro Martucci, il quale era eccellente e famoso nel paesaggio, più che nelle figure.
Fin dalle prime battute, il Carbone rivelò la sua naturale disposizione per lo studio del vero, perché egli si inebriava quasi estatico, alla contemplazione delle infinite varietà di colori che, talvolta madre natura si compiace rivestire il superbo spettacolo del suo lirico panorama.
Dopo i primi rapidi progressi, e col crescere negli anni, volle raggiungere Roma, la grande metropoli delle memorie artistiche di tutti i tempi; quivi frequentò la scuola di Paolo Brilli, che godeva fama di grande artista, per aver dipinto paesaggi pregiatissimi nella Chiesa delle Benedettine in Roma, dedicata a S. Cecilia, ed altri, raccolti nel Museo Nazionale di Napoli.
Ma, siccome la scuola veneta signoreggiava su tutte le altre, per verismo e vivacità di colori, il Carbone senz’altro si trasferì a Venezia; quivi, nel clima formato da quella potente scuola di paesisti, trovò il terreno propizio alla sua naturale disposizione, che servì di base allo sviluppo meraviglioso delle sue eccezionali virtù.
Dopo aver appagate le esigenze dell’arte e dello spirito, egli ritornò alla terra natia e si stabilì in Napoli, come nel posto migliore ove l’anima sua di artista poteva dissetarsi alle pure fonti
del divino e dell’umano, in una trasfusione incantevole di bellezze naturali. Quivi si dette, con tutto il fervore e la passione dei suoi anni giovanili, a rendere la produzione del suo genio, e dipinse pregevoli tele che presto ne elevarono la reputazione e lo posero in grande stima.
Tra i paesaggisti napoletani, fu quello che meglio fra tutti riuscì a fermare e a far sentire in pochi centimetri di tela, l’espansione ed il palpito della natura nei suoi sviluppi caratteristici.
La sua arte fu essenzialmente lirica ed impressionistica, poiché la sua intuizione artistica, lo fece dipingere senza contradizione o anomalia della tecnica, scevro da ogni suggestivo scolasticismo.
Ma proprio quando trovavasi nel periodo aureo, quando stava per cogliere le vette sublimi della immortalità, un crudele morbo lo trasse alla tomba all’età di 40 anni, chiudendo in una tormentosa incognita quel frammento di fastigio e di grandezza appena abbozzato nelle sue grandi linee.
La Città nostra, che ebbe il vanto di dargli i natali, ne volle onorare la memoria dedicandogli una delle vie principali.